Giovanni Calderoni (Zvanon ‘d Manocc’) nacque a Ca’ di Lugo (Ravenna) il 19 aprile 1908. Figlio di braccianti agricoli dell’entroterra ravennate, repubblicani ed atei, la sua vita sociale appare già segnata in giovane età.
Abbandona la scuola a sette anni per insofferenza e maleducazione, espulso formalmente dalle scuole elementari. Si rifugia nel lavoro nei campi. La sua vita non concede svaghi, ad eccezione del suo amore per la musica, consumata prevalentemente nei locali trattenimenti rurali.
Nel Ventennio, un personaggio difficile come lui fu scacciato, degradato, ridotto ad una esistenza umile e segreta: per dirla in altre parole, Giovanni era un indesiderato. Ad ogni modo, se da qualche parte della provincia di Ravenna c’era una qualche festa paesana, Giovanni tentava sempre di frequentarla, per potersi concedere qualche ora di svago in quella vita da emarginato. Di nascosto, imparava alla bell’e meglio a suonare la chitarra.
Giovanni Calderoni nel 1938
Era antifascista, anticlericale, antiborghese e antiautoritario in un mondo che era fascista, clericale, borghese e spesso autoritario. Nel ’38 viene arrestato per insubordinazione a Massa Lombarda, al termine di una altrimenti pacifica manifestazione musicale bandistica, e condannato ad un mese di carcere. Dopo un anno è arrestato di nuovo, questa volta per turbamento dell’ordine costituito; il podestà di Lugo, Forlati, che pure era stato tenero con altri repubblicani ed antifascisti in genere, è durissimo e raccomanda al pretore una condanna esemplare (la lettera è oggi conservata presso l’archivio storico del comune ravennate ed è stata recentemente esposta alla mostra “Lugo e l’Antifascismo, testimonianze 1935-1955”).
Zvanon viene condannato a dodici anni di carcere. Evade dal carcere di Forlì nel 1943, si dà alla macchia. Nessuna formazione partigiana ha ammesso una militanza del Calderoni nelle sue fila, ma è quasi certo che lui imbracciò il fucile fino alla fine del secondo conflitto e, probabilmente, anche negli anni a venire. Le storie sentite negli innumerevoli, fortuiti incontri degli anni passati in fuga dai regimi, o in carcere, lo convincono ad imbracciare la chitarra e prodursi, nei tumultuosi anni del dopoguerra, in una sorta di cantautorato di protesta ante litteram.
Le canzoni di Zvanon narrano di lotte contro il potere, in qualsiasi forma e dimensione, contro l’oppressione, contro nemici esistiti od immaginari.
Il brano che più ci ha colpito non è forse nemmeno “farina del sacco” del Calderoni (che chiaramente non ha mai lasciato testimonianza scritta delle sue creazioni) ma ne possiede gli stilemi e, soprattutto, lo spirito anticipatore di tanta canzone “contro” che poi è esplosa negli anni a venire. E’ un pezzo di fine anni ’40, una specie di racconto in prima persona di un fantomatico -e forse mai esistito- anticlericale ravennate di fine Ottocento, il “mangiapreti di Godo” (Magnaprit d’e God), che qualcuno ha associato alla figura di Algeste Bandini (1820-1879), mazziniano rivoluzionario poi internato in manicomio per i suoi modi estremi, di cui si dice che mangiasse i preti in senso non eufemistico. Zvanon ovviamente ne fa un eroe positivo ed encomiabile, ed anche se non possiamo condividere il suo estremismo, non possiamo non meravigliarci dal livello concettuale della canzone di protesta ravennate del secondo dopoguerra, decenni prima che divenisse una moda, e, poi, un vuoto stilema da sfruttare per il mercantilismo più becero.
Per motivi a noi ignoti, la metrica delle liriche della versione giunta a noi è quasi sovrapponibile ad “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols (1976), un pezzo che peraltro riteniamo musicalmente appropriatissimo.
Per la cronaca, Calderoni morì il 12 dicembre 1952, uscendo di strada in una notte nebbiosa sulla sua Guzzi 250 del ’39 e perdendo la vita in un incidente stradale la cui dinamica non fu mai, nè si volle mai, accertare.